I terroristi suicidi non sono “kamikaze”, media non fate confusione!

aprile 20, 2008

 


Piloti Kamikaze

Chiamateli: “terroristi suicidi”, oppure se volete usare la loro terminologia: “martiri”, ma la definizione: “kamikaze” è completamente fuori luogo quando ci si riferisce ai  fondamentalisti che si suicidano facendo strage di di civili.

Il termine “Kamikaze” trae origine dal giapponese; significa “vento divino” e deriva dal nome del tifone che nel 1281 distrusse la flotta mongola, mentre tentava l’invasione del Giappone.

I primi kamikaze della storia furono i piloti del gruppo “Scikiscima”, educati con il codice dei samurai “Bushido”, guidati dal capitano Yukio Seki, si immolarono il 25 Ottobre 1944 contro obiettivi nemici: militari con un rigidissimo codice morale, non: uomini, donne o bambini, in qualche modo affiliati a qualche setta politico/religiosa.

Gli ultimi attacchi avvennero nel pomeriggio del 15 agosto del 1945. In totale 2.134 aerei presero parte alle missioni suicide e di questi 1.228 non ritornarono alla propria base.

“Banzai*” era il grido di questi piloti suicidi della marina imperiale giapponese, che carichi di esplosivo, durante la Seconda Guerra Mondiale si lanciavano sulle navi militari nemiche: qui troviamo la seconda grande differenza, i piloti si scagliavano contro obiettivi, sottolineo militari non civili, per portare a compimento l’impresa cui avevano votato la propria vita, dovevano riuscire a superare un fitto fuoco di sbarramento antiaereo, che spesso li abbatteva: un contesto operativo completamente diverso da quello dei terroristi che agiscono nell’ombra.

* Il grido Banzai nasce dalla fusione dei termini: Ban (diecimila), Sai (anno), grido usato come saluto, questa parola entra a far parte dell’uso comune nel periodo Meiji, quando nel parco Ueno di Tokyo apparve l’Imperatore Meiji e la folla per salutarlo urlò: “Banzai”!

L’origine di questa parola è comunque più remoto (313-339): a causa dell’impoverimento del popolo l’Imperatore Nintoku sospese per alcuni giorni la riscossione delle tasse e proibì categoricamente qualsiasi lavoro di riparazione e abbellimento del proprio palazzo, per evitare spese a carico dell’erario.

Dopo che la situazione economica si normalizzò e la riscossione delle tasse ebbe di nuovo inizio, quando l’Imperatore di affaccio al balcone della propria residenza, la folla lo acclamò con il saluto:”Banzai!”, che in altre parole significa : “Viva L’Imperatore”, l’equivalente inglese: “God save the Queen”.

Hurricane 53

 

 


aprile 12, 2008

Il vuoto politico interno riaccende lo spettro della guerra civile.

Il re saudita Abdallah ed il presidente Egiziano Hosni Mubarak si sono riuniti mercoledì a Charm el-Cheikh per discutere sulla crisi che imperversa nel Libano, che è senza presidente dal 24 novembre. Mentre le discussioni continuano fuori dal paese, le varie fazioni sono impegnate in una corsa per armarsi.

Appoggiati al balcone del primo piano di questa piccola costruzione, decorata dall’ insegna “Secure Plus„, una decina di giovani libanese in blue-jeans e tee-shirt scrutano nervosamente con lo sguardo i passanti. La tensione è evidente. “Circolate, non c’è nulla da vedere …„, ringhia uno di loro.

 

Le bandiere azzurre del partito di Saad Hariri, leader sunnita della maggioranza al parlamento tuttavia denuncia l’affiliazione politica di questa società di sorveglianza, posta nel cuore di Ras al-Nabah, un quartiere misto di Beirut, teatro di recenti scontri tra sciti e sunniti. “Stiamo in guardia. Abbiamo rafforzato i nostri effettivi. Nel caso di attacco della fazione rivale, non resteremo a braccia incrociate …„, finisce per riconoscere Saad Mansour, uno dei leader di Secure Plus, vicino alla tromba delle scale. A febbraio, questi sono i suoi chebab (“giovani„), dice, che hanno combattuto contro partigiani di Amal e di Hezbollah, partiti sciti dell’opposizione. Fino ad oggi, le discussioni con loro si limitavano a scontri verbali. Ma in un Libano senza presidente, i colpi di arma da fuoco sparati da entrambi le fazioni denunciano un problema profondo che riaccende oggi lo spettro della guerra civile: quello del riarmo delle milizie e del moltiplicarsi di società di sicurezza private che fungono da paravento ad alcuni partiti politici.

 

“Gioco pericoloso”

“Ogni fazione si arma in nome della legittima difesa. Lo Stato non ha più il monopolio della forza. C’è un gioco pericoloso„, critica Fady Fadel, esperto di questioni giuridiche di armamenti e professore all’università Antonina. Dalla fine del conflitto interno che oppose soprattutto musulmani e cristiani, dal 1975 al 1990, le linee di rottura si sono evolute. “Oggi ci preoccupa particolarmente, la concreta possibilità di un conflitto tra sunniti e sciti„, confida, sotto la copertura dell’ anonimato, un ufficiale dell’esercito, la cui presenza è stata vigorosamente rafforzata nella capitale.

 

In virtù degli accordi di Taëf del 1989, tutte le milizie libanesi, in linea di principio, sono state disarmate, ad eccezione di Hezbollah che afferma la necessità di tenere testa ad Israele, e che dispone di una importante forza militare. Ma dall’assassinio del primo ministro Rafic Hariri, nel 2005, e con la fine della tutela Siriana, contro cui è stato puntato il dito per questo attentato, sono sorte una miriade di società di sicurezza private. Ufficialmente, dovrebbero individuare le automobili piene di esplosivo. Ma alcune di esse, per lo più gestite da ex-generali sunniti dell’esercito, si sono sviluppate come contrappeso al Partito di Dio.

 

 “Il nostro incarico consiste nel sorvegliare il quartiere„, si giustifica Saad al-Mansour. In realtà, la loro missione è molto più vasta. “Tutto è iniziato con una formazione per la difesa civile di 600 giovani disoccupati che Saad Hariri voleva aiutare finanziariamente assumendoli come guardie. Ma con l’aumento delle domande di assunzione ed il peggioramento della sicurezza, si è deciso un anno e mezzo fa di creare la società Secure Plus„, dice. Allora furono realizzate due diverse sezioni: “La prima, incaricata della protezione degli alberghi e dei centri commerciali, dispone di guardie in uniforme. E la seconda, più informale, oggi conta  su un contingente di un migliaio di giovani volontari in abiti civili, distribuiti sul territorio, e pagati circa 300 dollari al mese per fare ronde, di giorno e di notte„, confida un membro di Secure Plus, che preferisce non dire il suo nome.

 

Aggiunge uno specialista della sicurezza, che rifiuta anch’esso di fornire il proprio nome per timore di rappresaglie, “almeno altre quattro società dello stesso tipo sono state create di recente„. La loro legalizzazione, dice, “è facilitata dal ministro dell’Interno, parente di Hariri„. Ma si agita: “queste forze di mobilizzazione rapida, create secondo colori settari, potrebbero da un giorno all’altro trasformarsi in milizie„. Tanto più che, secondo l’ufficiale dell’esercito, “alcune guardie vanno in Giordania per ricevere una formazione di tipo militare„.

 

“Non sarà facile trattenerli„

Prudente, Saad al-Mansour rifiuta di confermare questa informazione. I chebab, dice, non hanno il diritto di essere armati. Ma, riconosce, “so molto bene che hanno delle armi a casa. Ed in caso di scontri, sarà difficile trattenerli„. Infatti, dalla fine della guerra civile, numerosi sono i privati che hanno conservato le armi a casa. Dopo Fady Fadel, il blocco politico e la crescente instabilità ha anche spinto, nel corso di questi ultimi quattro mesi, “ad una corsa all’acquisto al mercato nero di armi leggere, come kalashnikov, revolver, M16 e granate„. Secondo l’ufficiale dell’esercito, “le armi provengono dal confine siriano, via mare e via aerea„. Il segno che la domanda è in aumento è che il loro prezzo è triplicato in tre mesi. “Un kalashnikov costa ormai tra gli 800 e i 1.200 dollari, lo stesso un revolver„, dice.

 

Secondo alcune fonti, Hezbollah, sostenuto da Iran e Siria, avrebbe rafforzato le esercitazioni nella valle della Bekaa. I suoi avversari l’accusano anche di formare i suoi alleati del CPL (la corrente patriottica libera del cristiano Michel Aoun). Di fronte a loro, le forze libanesi di Samir Geagea e la PSP di Joumblatt disporrebbero anch’esse, si dice, di campi militari. Un rilancio inquietante. “Ogni fazione vuole disporre del proprio esercito e della propria giustizia. Ma se scoppia la guerra, chi sarà in grado di tenere sotto controllo tutti questi giovani? „, si chiede Sami Zod,  presidente del sindacato dei professionisti della sicurezza.

 

Delphine Minori – Le Figaro – Traduzione Hurricane 53

 


Cina: le torture praticate nella “società armoniosa” … consigiato agli adulti

aprile 9, 2008

Pochi anni fa in Cina fu lanciata in Cina una feroce persecuzione contro decine di milioni di praticanti del “Falun Gong”, un credo basato sui principi di Verità Compassione e Tolleranza. Per “rieducarli” furono impiegati più di un centinaio di metodi di tortura: alcuni sono descritti in questo post. Va aggiunto che queste barbarie furono applicate su anziani, ragazze adolescenti e donne incinta.

Alla luce di quanto sta accadendo in Tibet, esiste il ragionevole dubbio che le stesse tecniche verranno applicate per “rieducare” gli insorti di quel tormentato popolo.
Hurricane 53

 

Percosse e Droghe
Oltre alle tradizionali percosse, effettuate con bastoni o semplicemente prendendo a calci le vittime e possono provocare la morte del malcapitato; vengono iniettate delle droghe, a volte sono miscele ignote, che arrivano a danneggiare il sistema centrale nervoso, alcuni sono stati torturati fino a provocare alle vittime lo squilibrio mentale o la morte.

 

Scariche Elettriche
Gli ufficiali della polizia e le guardie carcerarie usano bastoni – talvolta muniti punte – elettrici ad alta tensione (fino a 300.000 volt) per provocare shock nelle parti sensibili ed in quelle intime delle vittime come: bocca, orecchio, palme delle mani, sotto i piedi e seni. Il bastone elettrico può essere inserito nella vagina della donna; sposata o nubile, per i carcerieri non fa differenza.

 

Talvolta, per aumentare la sofferenza, vengono usati simultaneamente più bastoni elettrici. La tortura può durare per sette ore consecutive, con effetti devastanti.

 

Ustioni
Le ustioni sono effettuate con le sigarette sul viso e lasciano il volto deturpato da cicatrici nere. Viene praticata sulle giovani donne allo scopo di sfigurarle per tutta la vita.

 
Per questa pratica polizia e carcerieri si servono anche di accendini; oltre al volto (bruciando persino le sopracciglia), le bruciature vengono inflitte sul mento, alle cosce, o sulle parti intime.

A volte, i carcerieri mettono barre di ferro nel carbone ardente fino a farle diventare roventi e poi le usano per bruciare il petto e le cosce.

 

Alimentazione Forzata

Inflitta (ufficialmente a scopo umanitario) quando le persone cercano di attuare lo sciopero della fame: le vittime sono sottoposte all’alimentazione forzata con una miscela di acqua salata concentrata, sciroppo di amido, succo di peperoncino e acqua, medicine irritanti, liquore di alta gradazione, detersivo, urina ed escrementi e così via, diluiti con l’acqua. Per evitare che la vittima resista, viene immobilizzata saldamente con corde, pesanti catene, o con le mani ammanettate dietro la schiena, viene anche messo sul capo un pesante “copricapo di ferro” per limitarne i movimenti.

 

“Il letto dei morti”
Chiamato anche “il letto che allunga”: usato per punire chi fa lo sciopero della fame o quelli che rifiutano di rinunciare al loro credo. Le mani e le caviglie della vittima vengono legate strettamente al “letto dei morti”, in modo che non possa muoversi. Poi i carcerieri o anche altri detenuti circondano la vittima per sottoporla all’alimentazione forzata attraverso il naso.

 

Il supplizio può durare anche una ventina di giorni, durante i quali la vittima giace immobile sul “letto dei morti”; per far evacuare le donne viene loro inserito a forza un catetere nell’uretra. Ad essa può essere associata la privazione del sonno e il lavaggio del cervello, che fanno aumentare la pressione sanguigna al punto di portare alla cecità.

 

Schiacciati sotto il letto

La vittima viene dapprima percossa da altri detenuti, la vittima viene accucciata, poi legata alle gambe ed ai piedi, mentre il collo viene a sua volta legato alle gambe, le mani sono poste dietro la schiena. In questa posizione la vittima viene posta sotto un letto e sopra il quale vengono messi dei pesi o altre persone per comprimere la sua schiena. Alcuni dopo questa tortura sono rimasti paralizzati.

 

Abusi Sessuali

Ufficiali della polizia e guardie carcerarie violentano singolarmente o in gruppo le donne, anche davanti alle altre detenute. A volte, dopo averle denudate, le gettano nelle celle degli uomini. Per fiaccare lo spirito delle vittime, scene di violenza vengono praticate per strada, davanti agli occhi della popolazione.

 

Le violenze sessuali vengono praticate anche inserendo oggetti, come lo sfollagente, nella vagina della vittime.

 

Aborto forzato
Per poter “utilizzare” le donne incinte nei campi di lavoro forzato, le guardie le costringono ad abortire, senza badare al periodo di gestazione in cui si trovano o se vi siano rischi per la vita della vittima.

 

Le iniezioni vengono praticate in presenza degli aguzzini che assistono al dolore della vittima e la scherniscono mentre abortisce; dopo la pratica la donna non ha diritto nemmeno ad un breve riposo.

 

La cella piena d’acqua

La cella piena d’acqua: la vittima viene posta nuda in una vasca di acqua lurida che arriva all’altezza del petto. Chi è sottoposto a questa tortura non può vedere la luce del sole per lungo tempo. Gli aguzzini decidono a loro piacimento la durata della tortura. Nella peggiore delle ipotesi le vittime muoiono, nella migliore escono dalla stanza con il corpo ricoperto di ulcere.

 

Congelamento, esposizione sotto il sole
In inverno, con temperature di 20°C e 30°C gradi sotto zero, gli aguzzini obbligano le vittime a stare in piedi all’esterno coperti solo con la biancheria intima.

 

In estate, le vittime vengono ammanettate e lasciate all’aperto sotto il sole cocente per ore; la tortura provoca svenimenti, ustioni sulla pelle e perdita di fluidi fisiologici. In alcuni “corsi di rieducazione”, per nascondere le atrocità, i carcerieri usano metodi ancora più perversi: in piena estate, rinchiudono stipate in una piccolissima cella le vittime per lunghi periodi ed aprono il riscaldamento al massimo per soffocarle.

 

I bastoncini di bambù

Lunghi bastoncini di bambù sono infilati sotto le unghie delle mani e/o anche dei piedi, causando alle vittime un dolore estremo. Quando la vittima sviene e perde conoscenza per il dolore, i carnefici infilano nuovamente i bastoncini di bambù per costringerla a svegliarsi. A volte per aumentare il dolore vengono infilati nella biancheria intima i mozziconi ardenti delle sigarette.

Legare la vittima ad un mezzo

I poliziotti legano la vittima dietro ad una macchina o a un motociclo, poi guidano il mezzo a tutta velocità, trascinandola, martoriandone il corpo di ferite e contusioni e spaccando le ossa. Le ossa a volte escono dalle ferite provocate dal trascinamento. Una variante consiste nel gettare prima la vittima nel fuoco e poi trascinarla con il mezzo

 

Lavoro in schiavitù

Le persone vengono imprigionate e costrette a lavorare in schiavitù, senza alcun compenso, in ambienti di lavoro pessimi. Gli oggetti prodotti includono confezioni di bastoncini da pasto, giocattoli da regalo per i fast-food e prodotti per capelli.

 

Bacchette “igenicamente testate”
Il Dipartimento di Spediziione dell’Ufficio d’Educazione al Lavoro di Pechino ha costretto la gente nel campo di lavoro a lavorare dalle 6:00 del mattino fino alle 9:00 di sera, a volte anche oltre mezzanotte. Dozzine di detenuti vengono rinchiusi in una piccola stanza, le bacchette da imballare sono buttate sul pavimento e spesso calpestate dalle operaie. Molte di loro hanno malattie della pelle, scabbia ed alcune erano tossicodipendenti o con malattie sessuali. Alcuni detenuti nutrono ostilità nei confronti della società e quindi sporcano la punta delle bacchette, strofinandole sui piedi o su altre parti del corpo. Il pagamento per il lavoro forzato è diventato un reddito per i poliziotti dei campi di lavoro.

 

Candele di cera che emettono forti odori chimici
Da luglio 2001, i funzionari del campo di lavoro Longshan hanno costretto i detenuti a produrre candele di cera in vari colori. Molti hanno sofferto di vertigini e debolezza ed hanno perso appetito dopo aver inalato gli odori tossici emessi dalle candele.

 

Cuscini per i sedili d’automobile
Il campo di lavoro forzato di Jiamusi ha costretto i detenuti a produrre cuscini per sedili di automobile dalle 7 di mattina alle 8 di sera, senza pause. Questo tipo di cuscini produce molta polvere, nociva alla salute, irrita il sistema respiratorio e causa pruriti in gola e difficoltà di respirazione. Nell’area di produzione non c’erano misure di sicurezza.

 

Gadget per fast food
I funzionari del campo di lavoro forzato Hewan nella città di Wuhan hanno costretto i detenuti a produrre giocattoli da regalo per ristoranti fast food fuori della Cina. L’officina apre alle 6 di mattina e rimane in attività fino alle 2 di notte.

 

Bastoni per il controllo traffico e stuzzicadenti
Il campo di lavoro Changlinzi ha costretto i detenuti con la vista migliore a saldare i bastoni per il controllo del traffico usati dalla polizia stradale. I bastoni sono esportati in Corea del sud.

 

I detenuti con la vista meno buona sono costretti a fare stuzzicadenti. Nel campo si lavora fino a 16-17 ore al giorno. Chi non lavorare velocemente finisce col lavorare giorno e notte.

 

Spaghetti e pane di farina di mais sono gli unici cibi disponibili. I detenuti subiscono la torture di scosse elettriche e percosse.

Ed il mondo “civile” tace …. 

 

Rielaborato da Hurricane 53, tratto da Clearwisdom.net


Allarme rosso al loft: i toni soft sono un flop …

aprile 6, 2008


 

Naturalmente non si possono citare cifre, perché la legge sui sondaggi politico-elettorali lo vieta espressamente dalla fine della scorsa settimana. Ma nelle stanze del Partito democratico circola uno studio approfondito, denso anche di rilevazioni recenti, sull’andamento della campagna elettorale in corso. Un documento che ha fatto scattare l’allarme rosso tra i principali dirigenti del partito, in testa Goffredo Bettini.

Secondo le analisi non avrebbe pagato come si sperava una campagna elettorale parallela a quella dell’avversario. Non basta che Silvio Berlusconi si sia mosso poco, perdendo parte del consenso accumulato nei mesi scorsi. Senza attaccare direttamente l’avversario, come Walter Veltroni si rifiuta di fare (lo ha rivendicato durante il viaggio in Sardegna), la rincorsa diventa tutta in salita.

Tanto è che l’analisi dei sondaggi già pubblicati dai giornali fino al 28 marzo scorso è impietosa. Nel 2001 – dalla data di scioglimento delle Camere fino all’ultimo giorno di pubblicazione consentita dei sondaggi – l’inseguitore dell’epoca, Francesco Rutelli, riuscì a recuperare ben 3,8 punti nel maggioritario della Camera (allora la legge era diversa) a Silvio Berlusconi che partiva con un vantaggio poi rivelatosi comunque incolmabile. Cinque anni dopo a inseguire fu lo stesso Berlusconi. Che nello stesso periodo rosicchiò a Romano Prodi 2,8 punti nel proporzionale.

In questa campagna elettorale i sondaggi pubblicati all’inizio e alla fine divergono molto. Quello più negativo per Veltroni gli assegna addirittura il passo del gambero: invece di recuperare sarebbe scivolato indietro di un punto fra il 6 febbraio e il 28 marzo. Quello più favorevole gli assegna un recupero di un punto e mezzo. Bisogna dire che in tutti e due i casi precedenti il recupero più clamoroso avvenne proprio nel periodo finale, quando i sondaggi dovevano restare segreti e utilizzati solo all’interno della ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Quel che si chiede dunque è più aggressività allo sfidante, che giorno dopo giorno dovrebbe attaccare almeno indirettamente con più decisione l’avversario.
Non paga quindi il simbolo di questa campagna elettorale, quello del signor Veltrusconi. Una specie di creatura mostruosa con i capelli, la dentiera e il doppiopetto di Berlusconi, e con gli occhiali, il mento e la camicia button-down di Veltroni. Nome in codice Caw, che sta per Cavaliere e Walter.

Alla vigilia dell’ultima settimana i toni («ma anche» gli argomenti) restano soft. Se non ci fosse stato il caso Alitalia, tra una cordata e una corda al collo, sarebbe stata ancora più noiosa. Eppure le premesse c’erano tutte per assistere a confronti astiosi tra candidati che sprizzavano odio da tutti i pori. Casini che ce l’ha a morte con Berlusconi, Bertinotti che vuole lo scalpo di Veltroni, ma deve guardarsi le spalle dall’accoltellatore Ferrando. Boselli che vorrebbe decapitare il leader del Pd, reo di voler cancellare i socialisti. C’era tanta carne al fuoco che Dario Argento avrebbe realizzato il suo horror più di successo. Invece niente. Perfino sul coglione di sinistra Berlusconi ha ritrattato. Questo signor Veltrusconi è malato di buonismo.
Marco Castoro


Pd: il blog di Marianna

marzo 31, 2008

Marianna Madia, la capolista alla Camera nel Lazio per il Pd alle elezioni di aprile 2008, è nata nel 1980 

E’ li che ti guarda e sorride, con i capelli sapientemente spettinati, pur essendo capolista da un pezzo Marianna ha aspettato le ultime tre settimane per aprirsi, o meglio farsi aprire (dubito che ne abbia le capacità) un blog e comunicare con i giovani; mi fa specie che la fanciulla abbia aspettato tanto per creare un canale di comunicazione con il “suo” elettorato: i giovani, mi chiedo: “perché non l’ha fatto prima, considerando che appena apre bocca non ne infila una? Trovo subito la risposta: quando una è capolista che “je frega”; poltrona, stipendio, annessi e connessi sono praticamente già in tasca … basta il gesto!

Ma torniamo al blog: verdolino, pare quello della Lega, solo …. slavato, ma è comprensibile: il Pd non è di sinistra, non è di destra, non è troppo molle, ma neppure troppo duro come i leghisti, non ha idee, ma tanta gente da sistemare: come la DC dei tempi d’oro, una insulsa brodaglia che – nelle celate intenzioni – vorrebbe fagocitare tutto, magari regalandoci altro mezzo secolo di letargo.

Nel blog alcune foto (piuttosto scadenti), qualche riproduzione di manifesto e degli slogan neppure troppo originali, il filmato della sua conferenza stampa (che si riesce a seguire per circa un minuto e mezzo), l’agenda della sua “estenuante” attività elettorale attraverso bar, cinematografi, teatri e gazebo … un paio di articoletti, un’intervista …

La presentazione recita: “Sono stata scelta io. Non me lo sarei mai immaginato né penso di averlo particolarmente meritato”, dai Marianna: figlia di Stefano Madia, attore prestato alla politica, consigliere comunale a Roma. Morto nel 2004, amico di Veltroni; nipote dell’Avvocato Titta Madia (quello di Mastella); ex del figlio di Giorgio Napolitano; un lavoro alla Presidenza del Consiglio, con un contratto di consulenza, sembra pure un lavoro anche alla segreteria di Enrico Letta … mica ci vuole tanta immaginazione a trovarsi candidati.

Il pezzo forte del blog è la biografia di questo “fenomeno della politica”: cita la laurea, il lavoro di ricercatrice all’Arel (non precisa che non era ancora laureata e che il posto le è stato assegnato grazie all’interessamento di Enrico Letta) fondato da Andreatta (toh il maestro del Professore), una partecipazione nella segreteria tecnica del del Professore e una collaborazione per un testo edito dal Mulino (in cui il Professore ha avuto ed ha un “peso” non indifferente), fino al suo sbarco in Rai (omette di citare il suo “maestro di vita e di pensiero” Gianni Minoli, che l’ha aiutata in questa circostanza)! Brava, ma tutto da sola?

Troverete un paio di commentini e sinceramente me ne aspettavo di più, considerando che il blog di Marianna dovrebbe esere un luogo di discussione. Qui invece i commentini sono di congratulazioni e di incoraggiamento, probabilmente scritti da qualche amico.

E’ tutto qui: ora vedremo se e quanto durerà; per esperienza sappiamo quale fine fanno iniziative di questo genere, una volta che i candidati vengono eletti … e Marianna lo sarà, non dica però che non si  immaginava neppure questo, la candidata capolista nel collegio di Lazio 1.

Hurricane 53


Democrazia addio: le Camere agli automi (o ai burattini, fate voi …)

marzo 28, 2008

 

Dice: in giro non si respira poi questo grande entusiasmo per le elezioni imminenti. E ti credo. Stiamo per mandare a Roma mille persone scelte dalle segreterie dei partiti, anziché da noi, in base a due soli criteri: l’obbedienza ai capi e l’impossibilità di far loro ombra. La mancanza di personalità, requisito essenziale per chi voglia fare carriera nelle oligarchie italiane, si intona alla campagna elettorale dei candidati, inesistente, e al lavoro che gli eletti andranno a svolgere in Parlamento: pigiare dei tasti a comando, senza neanche potersi togliere lo sfizio di disobbedire ai propri burattinai, pena l’esclusione dalla prossima giostra.

È questo scadimento avvilente della funzione parlamentare, più ancora dello stipendio e dei benefit, che dovrebbe indignare i cittadini. Se il 13 aprile, invece che degli esseri umani, trovassimo sulla scheda le lettere dell’alfabeto, sarebbe lo stesso. E se in Parlamento sedessero mille automi, sarebbe anche meglio, perché i robot non hanno bisogno di scroccare voli aerei e pranzi alla buvette. Quanto a noi, il nostro status di condòmini della democrazia si riduce a mettere una croce accanto al cognome del leader orecchiato alla tv e delegargli per alcuni anni la nostra impotenza, che diventerà ben presto la sua. Perché, per uno di quei paradossi di cui l’Italia è capace, appena il capo onnisciente e vittorioso si siederà nella stanza dei bottoni e comincerà a premerli tutti, scoprirà che sono collegati al nulla. 

Massimo Gramellini


Tibet: le voci dei blogger contro Pechino e contro il Dalai Lama

marzo 27, 2008

Ansa)[/i]

Cala il sipario mediatico sul Tibet . Il 20 marzo scorso Pechino ha espulso gli ultimi due corrispondenti stranieri presenti a Lhasa: George Blume, inviato del tedesco Die Zeit, e Kristen Kupfer, collaboratrice della rivista austriaca Profil. Tre giorni prima, il 17 marzo, era toccato a James Mill, l’inviato dell’Economist, cui si devono i più accurati reportage sui giorni della rivolta, sulla caccia ai negozianti cinesi e sulla repressione. Eppure, come era già accaduto in Birmania, l’onda dei blog, delle chat e dei caffé virtuali è difficile da fermare, anche in un’area ormai sigillata (fatto salvo per le visite dei corrispondenti guidate dal regime) come il Tibet. Anche in un territorio dove la stretta ha riguardato persino le nuove tecnologie, con il blocco totale all’accesso su Youtube.

Radio Free Asia trasmette su Internet e raccoglie le testimonianze di chi c’era durante i giorni della rivolta ma anche di centinaia di tibetani in esilio in contatto con i loro parenti oltreconfine. Tutti rigorosamente anonimi, come misura preventiva contro eventuali ritorsioni. “Racconta una cosa sola per telefono e sei morto”. Eppure i tibetani continuano a raccontare, a volte con nomi e cognomi delle persone arrestate, vittime di una repressione che non è quella virulenta e di massa del 1989, ma non sembra arrestarsi nemmeno di fronte alle note critiche della diplomazia internazionale o alla necessità di mantenere in ordine la vetrina olimpica. Come è accaduto durante le proteste (pacifiche) in un monastero dell’area di Sangchu, il 17 marzo scorso. Di alcuni degli arrestati – Targyal (43 anni), Choepel (42), Kalsang Tenzin (40), Jamyang (32), Sangye Gyatso (13), Tashi Gyatso (14), Kalsang Sonam (16), Kalsang Dondrub (17), Kalsang Tenzin (16), Choedrub (30), Damchoe (29) – i loro compagni non sanno più nulla. Sono stati portati via sui carri, manette ai polsi, testa bassa, mentre gli altoparlanti avvertivano: “Consegnatevi alle autorità prima che sia troppo tardi”. Questo ha raccontato a Radio Free Asia un tibetano in esilio a Dharamsala, capitale indiana del governo in esilio dove vivono oggi circa 300 mila tibetani, in contatto (telefonico) con parenti e amici al di là del confine.

Il Tibet brucia: il videoservizio sulla tv cinese

http://www.youtube.com/watch?v=QkbhOiFqyPY&eurl= 

Un’altra finestra sulla lotta tibetana è quella del sito Tibet People’s uprising, uno dei più informati e politicizzati. Raccoglie testimonianze, ma anche una conferenza stampa quotidiana, filmati sulla repressione e video-aggiornamenti (visualizzabili anche attraverso il proprio cellulare) da Dharamsala. Dal recinto attorno al Tetto del mondo arrivano insomma, anche se attutite, le testimonianze dei bloggers. O anche dei curatori del Youth Congress, l’organizzazione giovanile degli esiliati che ha dato il via alla rivolta e che considera ormai superata la tattica nonviolenta del Dalai Lama. Come inadeguata, agli occhi di molti giovanissimi tibetani, è la richiesta di semplice autonomia politica (e non di indipendenza) che avanza inascoltato da decenni l’autorità spirituale del Tibet. “Si è inventato un dialogo che in realtà non è mai esistito e, ciononostante, ha avallato l’ingresso della Cina nel Wto e le Olimpiadi”, ha detto qualche giorno fa Piero Verni, giornalista, presidente dell’Associazione Italia-Tibet, sposato con una tibetana della diaspora. Il punto di vista di questo studioso che ha curato l’unica biografia autorizzata del Dalai Lama in Italia, apparentemente così eccentrico rispetto al mainstream della stampa occidentale, è in realtà in linea con quanto sostengono sotto voce decine di bloggers e gli attivisti radicali in esilio che hanno dato il via alla rivolta. E che ora, anche a leggere quanto scrivono su Internet, non sembrano più disposti ad avallare una tattica attendista ispirata alla famosa “via di mezzo” del Dalai Lama che – dicono – è riuscita sì a raccogliere le simpatie della stampa mondiale, ma in pratica non ha ottenuto quasi nulla, da cinquant’anni in qui, per il popolo tibetano. Per il quale c’è qualcosa di più strisciante della repressione militare: l’assimilazione culturale ed etnica resa possibile dalla massiccia immigrazione Han in Tibet proveniente dalle zone orientali della costa. Il Tibet, per Pechino, è con i suoi ampi spazi sottopopolati e colonizzabili, oltre che un cuscinetto strategico contro le minacce provenienti da Occidente, una valvola di sfogo demografico cui la Cina imperiale (un miliardo e 200 milioni di abitanti, il 90% dei quali di etnia Han) non vuole, né forse, può rinunciare. Lo sanno bene anche nelle cancellerie occidentali: gli Stati Uniti, così tiepidi finora nel denunciare il genocidio tibetano, fanno affidamento sulle riserve valutarie di Pechino (che detiene la quota maggiore del debito estero americano), per finanziare il proprio deficit, nonché (anche per l’Europa) sulla capacità della Cina di assorbire le esportazioni mondiali.

ALTRE FONTI: Campaign for Tibet, Tibet blogs

Repressione cinese in Tibet (fonte Cnn)

http://www.youtube.com/watch?v=R0zbIQdDylg&eurl=

Panorama


Tibet: Tso aveva 16 anni, la polizia cinese l’ha freddata con un colpo alla nuca – Times – Traduzione Hurricane 53

marzo 25, 2008

I monaci del monastero di Kirti ad Aba, Sichuan, Cina occidentale, dicono di aver trovato una studentessa di 16 anni fra i 23 contestatori tibetani uccisi dal fuoco della polizia cinese domenica scorsa.


Ragazza tibetana

Lhundup Tso, è la più giovane vittima registrata nella severa repressione cinese, aveva ancora la cartella sulla schiena. Il suo corpo è stato portato al monastero insieme ad altre vittime per documentare ufficialmente che la protesta tibetana è stata un massacro.

Temono che possa essere rimossa dalla polizia armata cinese, nel tentativo di ridurre la più grande rivolta tibetana degli ultimi 20 anni.

Si dice che Tso fosse insieme ai 2.500 tibetani guidati dai monaci, che marciavano verso il quartier generale delle sedi del governo locale inneggiando, “lunga vita al Dalai Lama,” ed altri slogan indipendentisti. Erano partiti alle 11.30 ed affrontato circa 200 uomini della Polizia Armata del Popolo, in assetto da combattimento, armati di mitragliatrici.

Secondo il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia, che la scorsa settimana aveva confermato 23 morti, la polizia ha aperto il fuoco per disperdere la folla.

Il direttore del centro, Urgen Tenzin, afferma che i colpi avevano provocato il panico e una fuga precipitosa. Tso è stata ritrovata con il volto rivolto a terra, ma i monaci che hanno portato il suo corpo al monastero hanno detto che l’avevano colpita alla nuca.

Accanto a lei giaceva un suo compagno della scuola media tibetana di Aba, un ragazzo di 17 anni di nome Norbu, che è stato portato al monastero e fotografato insieme ad altre cinque vittime. Il suo magro dorso era coperto di sangue e nella cassa toracica aveva il foro di un proiettile.

Nell’unica immagine disponibile di Tso appare molto vivace. Sta posando per la macchina fotografica, con i lunghi capelli neri sulle spalle, spostati dietro le orecchie e un sorriso che unisce le rosse guance che identificano i tibetani di questa luminosa regione di allevatori che vivono in cima all’altipiano tibetano.

Si pensa che il padre Jigshe e la madre Sherab siano degli allevatori semi nomadi, che nei mesi estivi si spostano verso i pascoli più alti. Essi hanno detto di essere particolarmente fieri della figlia, che è stata descritta come una degli allievi più bravi fra quelli del suo anno e la migliore della classe in matematica e lingua tibetana.

Gli annunci del governo cinese negano che ci siano stati dei morti ad Aba domenica, ma Xinhua, l’agenzia di stampa ufficiale, segnalava che la polizia aveva aperto il fuoco ai dimostranti “per autodifesa”.

I dimostranti, molti di loro compagni di scuola di Tso, avevano attaccato le scuole, gli ospedali e le sedi del governo con bombe Molotov e pietre, secondo quanto afferma l’agenzia. Avevano appiccato il fuoco alle automobili ed ai negozi di proprietari cinesi ed avevano attaccato i cinesi del posto con i coltelli. I rivoltosi avevano persino bruciato una stazione di polizia e provato a prendere le armi ai militari, secondo quanto sostiene Xinhua.

I sostenitori tibetani bollano gli annunci come come “propaganda”.

Dean Nelson – Times – Traduzione Hurricane 53


Veltroni caccia gli immigrati dalle liste; Berlusconi e Fini …

marzo 9, 2008

Macché Obama: è solo fuffa. Alla prova dei fatti Walter Veltroni ha dato un calcio nel deretano ai parlamentari immigrati che pure erano già eletti nelle sue liste e -senza neanche telefonargli- li ha lasciati a casa. Clamoroso il caso di Khaled Fouad Allam, mio carissimo amico, algerino, notista di Repubblica, professore universitario a Trieste. Il suo progetto, il suo lavoro parlamentare era fondamentale: costruire con pazienza un Islam italiano, favorire la crescita di una scuola di formazione per Imam che bloccasse il furore estremista che infiamma le nostre moschee (156 sono quelle sospette, dicono i servizi segreti oggi).

Per due anni Khaled ha lavorato a questo progetto in tutte le sedi istituzionali, in stretto raccordo con Giuliano Amato. Era ovvio che Veltroni lo facesse continuare, o almeno che lo sostituisse -se proprio voleva- con altri che sviluppassero la stessa iniziativa. Invece niente: messi in lista portavoce e ragazzine che teorizzano la propria inseperienza politica come dote, il nostro Obama de Torpignattara non si è neanche degnato di far telefonare a Khaled per scusarsi dell’esclusione.

A riprova che la sinistra è conservatrice e il centrodestra innovatore, nelle stesse ore, intanto, Berlusconi e Fini offrivano la candidatura a Souad Sbai, una coraggiosa e simpaticcissima signora -anche lei mia cara amica- che organizza un fodamentale circolo Averroè a Roma (sede di un Islam razionale e moderno) ed è addirittura la presidentessa -donna!- di tutte le organizzazioni degli immigrati marocchini in Italia.

Candidatura esemplare, perfetta, indice di una comprensione immediata della rilevanza del tema. Da restare sbalorditi per la iattanza demente di Veltroni

Carlo Panella